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Tecnologia: virus ed energia solare, micro-supercondensatori e molto altro

25 Maggio 2010

Sono tornato da poco da un viaggio di lavoro ad una conferenza (su laser e altre cose molto interessanti… pubblichero’ un resoconto su queste pagine quanto prima: stay tuned!), quindi ho avuto poco tempo per scrivere. Gli articoli in cantiere sono parecchi; per ora vi lascio un breve sommario di alcune tecnologie a livello embrionale che mi hanno colpito di recente.

Un virus per ottenere idrogeno da acqua ed energia solare

Normalmente per generare idrogeno, da usare come combustibile “verde”, ad esempio in appositi motori per automobili, si applica una corrente all’acqua per scinderla nei suoi componenti: idrogeno ed ossigeno. E’ il processo noto con il nome di elettrolisi (accento sulla o oppure sulla prima i, a vostro piacimento). Il problema e’ che questo processo richiede elettricita’, che deve, quindi, essere generata in qualche modo che puo’ essere inquinante (centrali a carbone o a gas) oppure poco efficiente (energia solare). In questo modo e’ facile vedere che l’idrogeno, diversamente, ad esempio, dalla benzina, non e’ una fonte energetica ma un metodo per immagazzinare energia.

Uno studio in corso al MIT, pero’, potrebbe cambiare le cose e permettere la separazione di idrogeno ed ossigeno a partire direttamente dall’energia solare. L’idea consiste nell'”imprigionare” un virus (chiamato M13) insieme ad un pigmento e ad un catalizzatore (ovvero una sostanza che aiuta una reazione ma non ne prende parte, cioe’ si ritrova immutata alla fine della reazione stessa) all’interno di un gel. Questa combinazione si comporta un po’ come la clorofilla, la sostanza che le piante utilizzano per trasformare la luce solare in energia attraverso la fotosintesi. Per ora questo e’ uno studio esplorativo: e’ stato dimostrato il meccanismo di separazione di ossigeno da idrogeno a partire dall’acqua e dalla luce solare, ma ci sono ancora diversi punti da sistemare prima di poter avere anche solo un prototitpo stabile che si avvalga di questa tecnologia, anche se il gruppo di Angela Belcher e Yoon Sung Nam, gli inventori di questo gel di virus, prevedono di poterne creare uno in un paio di anni. Questo potrebbe essere un notevole passo in avanti nella tecnologia che permette di immagazzinare l’energia del sole.

Micro-supercondensatori: la fine dell’epoca delle batterie?

Un condensatore era, fino all’altroieri dell’elettronica, un componente delle dimensioni di un piccolo fagiolo o una lenticchia, diffuso su molte schede elettroniche per agire in qualche modo su un segnale elettrico, ad esempio filtrando la corrente di alimentazione di qualche dispositivo. Siccome per svolgere il suo compito deve accumulare energia elettrica, spesso si penso’ di utilizzarli per sostituire o affiancare le piu’ classiche batterie. Nonostante le caratteristiche molto invitanti, come la possibilita’ di caricarli in poche decine di secondi anziche’ in ore o il fatto che non si degradano anche dopo ripetuti cicli di carica e scarica, la bassa densita’ di carica (quanta carica possono immagazzinare per unita’ di volume) significava che per sostituire una batteria convenzionale, ad esempio una stilo, ci sarebbe voluto un condensatore molto grosso. Da allora la tecnologia ha fatto grossi passi in avanti e oggi si esplora la possibilita’ di utilizzare supercondensatori come batterie per auto, anche se la ditta che dichiara di essere piu’ vicina al successo, fin’ora non ha mostrato nemmeno un prototipo.

Altri gruppi, pero’, mirano a miniaturizzare questi supercondensatori per poterli produrre attaccati, se non inseriti, nei circuiti logici e nei microprocessori che dovrebbero alimentare. Questo permetterebbe l’eliminazione delle batterie chimiche per far funzionare piccoli apparecchi elettronici (e magari in seguito anche apparecchi piu’ grandi) come lettori di MP3, orologi digitali e simili. Il problema, anche in questo caso, era di tipo tecnologico: la capacita’ ottenuta era sempre troppo bassa e anche altri inconvenienti erano all’ordine del giorno. Di recente, pero’, un gruppo di ricerca della Drexel University di Philadelphia sembra aver trovato una soluzione al problema e di essere in grado di ottimizzare il materiale (carbonio in forma porosa) per massimizzare la carica. La tecnologia e’ stata rilasciata in licenza ad una ditta, quindi potremmo vedere i primi prototipi e in seguito la sua commercializzazione nei prossimi pochi anni.

Usare la luce per far comunicare tra loro i chip in un computer.

Chiunque abbia avuto contatti, anche sporadici, con i computer negli ultimi dieci anni si sara’ reso conto di un fatto: fino a qualche anno fa la stima della “potenza” di un computer veniva attribuita, in prima istanza, ad un numero, la frequenza di funzionamento del suo processore, cosa che invece ora non e’ piu’ vera. Sembra, infatti, che i processori abbiano superato la soglia dei 3 GHz e che a quel punto abbiano smesso di inseguire velocita’ sempre maggiori. Questo e’, a tutti gli effetti, vero e ha diversi motivi tecnologici a giustificazione, ma ha anche delle motivazioni non strettamente legate ai processori, ovvero la capacita’ di trasferire dati da un chip all’altro. Il processore in un computer ha bisogno di ottenere dati per fare i suoi calcoli e, una volta ottenuti i risultati, dovra’ trasferire questi dati ad altre unita’ all’interno del computer. A questo punto dell’evoluzione tecnologica dei computer, e’ la velocita’ di trasferimento dei dati tra diversi chip e microprocessori a limitare le prestazioni del sistema. Il problema e’ che all’interno di un processore, i vari elementi di calcolo sono molto vicini tra di loro e i collegamenti elettrici di conseguenza sono molto corti. Ciononostante all’aumentare della frequenza aumentano anche i consumi e una parte sempre piu’ significativa della potenza elettrica immessa va a finire in perdite. Questo e’ ancora piu’ vero quando si tratta di trasmettere i dati attraverso svariati centimetri di piste di rame, cosa comune nella comunicazione da chip a chip, infatti a frequenze di alcuni GHz queste piste elettriche si trasformano in vere e proprie antenne per microonde e, oltre a dissipare energia sotto forma di “radio amatoriale” non voluta, creano anche diturbi ad altre piste vicine, che si comportano come antenne riceventi.

Per ovviare a questo problema, gia’ da molti anni, si cerca di far comunicare i chip usando la luce anziche’ l’elettricita’, cosa che permetterebbe di consumare molta meno energia e aumentare moltissimo la velocita’ dei computer. Sfortunatamente, diversi problemi tecnologici, ad esempio il fatto che il semiconduttore usato per i chip, il silicio, e quelli normalmente utilizzati per laser e led siano poco compatibili tra di loro, ha reso l’uso di segnali di luce da parte dei processori difficoltosa. L’ultimo pezzo del puzzle sembrava essere un sensore in grado di ricevere la luce, un occhio per il processore. La difficolta’ qui consiste nel renderlo sensibile a valori molto bassi di intensita’ luminosa, ma mantenere le sue dimensioni ridottissime. Fino ad ora sembrava non esserci una soluzione, ma un gruppo di ricerca della IBM ha recentemente pubblicato sul giornale Nature, i risultati di una ricerca in cui spiegano come sono riusciti a realizzare proprio questo sensore, in grado di portare la velocita’ di trasmissione a frequenze oltre 10 volte superiori a quelle dei processori attuali.

Il gruppo non si aspetta che questa tecnologia sara’ inserita in computer per il vasto pubblico prima di dieci anni, ma, come spesso accade, il mercato potrebbe spingere perche’ la tecnologia venga messa a disposizione del grande pubblico e potremmo vedere presto sugli scaffali computer che “comunicano alla velocita’ della luce”.

Un purificatore d’acqua “spinoso”

Scienziati della University of South Florida a Tampa, stanno verificando la possibilita’ di utilizzare un “metodo naturale” per purificare l’acqua e renderla potabile: un cactus. Pare che questa tecnica fosse gia’ nota ai messicani nel diciannovesimo secolo, ma ora i ricercatori la stanno mettendo alla prova utilizzando i metodi e le tecnologie a disposizione della scienza moderna. La tecnica consiste nell’estrarre una mucillaggine prodotta da questo cactus (Opuntia ficus-indica, o fico d’india) e aggiungerla all’acqua. Dai primi esperimenti pare che questa sostanza gommosa faccia aggregare i sedimenti e i batteri che avevano aggiunto all’acqua, i quali, poi, precipitano sul fondo del contenitore. Ulteriori ricerche sono necessarie per verificare l’efficacia su acque contaminate non create su misura e per stimare l’impatto ambientale che questa soluzione potrebbe avere se venisse implementata su larga scala.

Se tutte le ricerche dessero risultati positivi, questa “nuova tecnologia” potrebbe fornire acqua potabile potenzialmente a miliardi di persone che al momento attuale hanno grandi difficolta’ ad ottenerla. Il fico d’india, infatti, puo’ crescere quasi ovunque e il metodo di estrazione della sostanza purificante e’ sufficientemente semplice da poter essere condotto da chiunque, senza necessita’ di grossi macchinari o conoscenze scientifiche.

2 commenti leave one →
  1. 28 Maggio 2010 10:05

    Beh, l’uso di sostanze flocculanti nella depurazione\purificazione delle acque è parecchio comune.
    Francamente non vedo la notizia.
    Anzi; la trovo un passo indietro visto che i flocculanti di sintesi (generalmente degli idrossidi o chelanti come l’acido etilendiamminotetracetico, anche conosciuto con la sigla EDTA) sono più amici dell’ambiente di una possibile coltivazione intensiva di foreste di questi cactus che sarebbero necessarie per un uso industriale di questo metodo.

    —Alex

    • 31 Maggio 2010 09:31

      Ciao Alex,

      in effetti non e’ esattamente una notizia di alta tecnologia nel senso piu’ stretto: esistono sicuramente alternative migliori per ottenere lo stesso effetto su larga scala.
      Quello che trovo essere la notizia, qui, e’ il fatto che si potrebbero (il condizionale e’ d’obbligo finche’ non ci saranno studi piu’ approfonditi) ottenere buoni risultati di depurazione dell’acqua utilizzando una sostanza ed un metodo alla portata di chiunque al mondo, e non solo di chi e’ economicamente avvantaggiato. Mi immagino un villaggio nel cuore dell’Africa dotato di acquiferi nelle vicinanze ma solo non potabili: ovviamente queste persone non hanno accesso ne’ alle sostanze che citi tu, ne’, tanto meno, alle tecnologie per produrli, mentre potrebbero utilizzare tranquillamente la sostanza estratta dal fico d’india, processo semplice che non richiede grandi tecnologie per poter depurare la loro acqua.

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